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Dare parla di noi. L'altruismo e la zuppa di verdure in psicologia. - Pollicino era un grande
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Dare parla di noi. L’altruismo e la zuppa di verdure in psicologia.

È lieto soltanto chi può dare.
Johann Wolfgang Goethe

“Dare è la migliore comunicazione.”

Arriva dalla Thailandia e in pochi giorni ha commosso anche l’Italia. Si parla di una ditta di telecomunicazioni, lai True Move H e in tre minuti e tre secondi racconta una storia lunga 30 anni che ci porta a riflettere ma anche commuove ( il video è linkato all’immagine in basso).

La storia. Un bambino ruba per  bisogno di medicine, la mamma è malata. Un uomo lo aiuta, intervenendo su chi lo ha “beccato”, regalandogli anche della zuppa di verdura. Trenta anni dopo quel bambino è un uomo e avrà maniera di restituire il favore. Una trama semplice che ci racconta la semplicità della reciprocità delle azioni, dare significa anche ricevere. L’altruismo come elemento fondamentale delle relazioni. E allora perché ci si commuove come davanti ad un miracolo squisito nella sua unicità? E ancora, siamo sempre stati altruisti? Inizierò con l’ultima domanda. La risposta è NO! Non sempre.

L’altruismo bisogna poterselo permettere o nasce da un bisogno?

A pensarci, l’altruismo, l’aiutare l’altro, nasce con i primi uomini, nel freddo delle loro caverne. Soli, deboli, senza troppi strumenti, devono aver capito in fretta che da soli sarebbe stato ben più difficile sopravvivere in un mondo pericoloso e pieno di affamati nemici. Il bisogno di protezione tra simili e di unione contro le altre tribù, ha presto suggerito il vantaggio di stare insieme, essere “altruisti”. Nata l’idea di tribù, di comunità, il sentimento dell’altruismo si è subito legato alla categoria di appartenenza ( ti aiuto perché sei come me) e necessitando di una certa serenità interna per potersi manifestare, onde evitare che il gesto di dare diventi sinonimo di impoverimento di sé. Darwin ritiene, in merito, che l’altruismo non fosse coerente con il principio della selezione naturale, se ti aiuto tiro alla natura un brutto scherzo, non se la vedrà più solo con te ma non un NOI. Quando, poi, l’altruismo si allontana dal legame parentale o di clan, abbiamo quello che, tecnicamente, viene chiamato “altruismo reciproco” ( Robert. L. Trivers, 1971) che avviene senza legami di parentela tra i due soggetti dell’azione altruista ed è caratterizzata da un piccolo rapporto di grandezze, quello che perde il benefattore è molto meno di quanto guadagna chi ne beneficia.

 


 

In psicologia parliamo di comportamento, azione prosociale, compiuta cioè per aiutare il prossimo.

L’altruismo sarebbe questo desiderio che non viene placato dal costo dell’azione che si compie e non teme la mancanza del vantaggio che ne avremo in cambio. Lo facciamo e basta.  Possiamo, d’altro canto, essere anche “altruisti egoistici”, agire cioè con l’obiettivo di averne qualcosa in cambio (farsi vedere altruisti, migliorare la propria immagine sociale per esempio.) La verità è che essere altruisti ci fa sentire meglio, ci solleva, aumenta la nostra autostima e l’approvazione degli altri verso di noi.  Se poi aggiungiamo la possibilità di essere ricambiati ecco che comprendiamo come sia possibile il legame altruismo-lunga vita, in linea con quanto mostra una ricerca recente dell’Università di Buffalo. In questo studio durato ben cinque anni in tre diversi centri americani, si è scoperta una correlazione tra comportamenti altruistici e salute. Infatti è risultato che i benefattori mostrano livelli di mortalità più bassi di chi non pratica l’altruismo, si ammalano meno e sono meno stressati.

Allora perché, mi torno a domandare,si prova tanta compassione nel vedere questo video? Perché la tenerezza di quel gesto sarebbe stata difficile da eguagliare per molti di noi. La presenza di molte persone intorno a noi, di un pubblico, inibisce i gesti altruistici, ci trasforma e rende ben più arduo il fare qualcosa. Ce lo racconta bene la triste storia di Kitty Genovese, morta per mancato soccorso a New York nel 1964, accoltellata più volte per mancanza di intervento dei vicini. Cosa era accaduto? La povera Kitty aveva solo la sfortuna di essere circondata da terribili vicini? Niente di più sbagliato. E’ una reazione comune, essere spettatori di un bisogno di aiuto, specie se non siamo soli, rende più complesso agire l’aiuto necessario, si aspetta che gli altri lo facciano per primi, si rallentano le reazioni, si inibisce il dare perché non si sente la responsabilità di quanto accade e allo stesso tempo, gli altri, ci condizionano. Ci chiediamo, cioè, cosa diranno di noi se dovessimo fare il primo passo.

 

Guardando il video dell’uomo della zuppa e del bambino ci commuove la forza dell’uomo, la velocità di reazione che non teme la folla che lo circonda, non gli importa mettere in “pericolo” la propria reputazione per proteggere un ladruncolo. Insieme, ci commuove il bambino che viene aiutato, trovando, nel suo umile sguardo grato, la delicatezza che non sempre abbiamo potuto mostrare, per aiuti che non sempre ci sono arrivati, meno che mai da sconosciuti. Quando la gratitudine viene manifestata, il pensiero di quanta compagnia deve aver fatto, a quel bambino, la sensazione di non essere solo, muove un desiderio di senso fuori moda di questi tempi.

Era il 1994 quando S. Moscovici scriveva “Prosocialità e altruismo” (Ed. Erikson), parlando di questa come di una specie di controtendenza in un società maggiormente attenta al profitto e al successo che non alla relazione e al bene dell’altro. Per l’autore, l’altruismo poteva essere partecipativo, per il bene della collettività, fiduciario, nei rapporti vicini o normativo, gestito quindi da istituti e leggi.  Siamo ancora in una cultura dell’egoismo e parlare di dare suona come un atto di coraggio quasi estremo.

Sotto un pesante fardello di luccicanti bisogni (successo,essere il primo,correre più in fretta degli altri), c’è ancora spazio per una cultura dell’ascolto, del piacere della reciprocità positiva, del vincere tutti.

Questo non significa che non sia insita nell’uomo una dose di aggressività e sano egoismo, che preservi e conservi dai pericoli.  La visione del filosofo J.J. Rousseau, che riteneva che la natura umana fosse corrotta da quanto la civiltà faceva credere importante (“tutto degenera nelle mani dell’uomo”) è condivisibile in parte, va colorata con la dovuta attenzione a quella parte di aggressività propria dell’essere umano e mista al peso dei fattori sociali e della realtà diverse in cui si muove.

La semplicità di un gesto d’altruismo parla di noi e di quell’uomo essenziale che ancora ha bisogno dell’altro per difendersi dal freddo dei lunghi inverni dell’anima, insegna l’imitazione dell’umiltà che riesce a vedere nell’altro soltanto l’altro e non il nemico, racconta il potere dell’empatia, del sentirsi pieno nel lasciare spazio agli altri. Dare diventa comunicazione di una storia universale che troppo spesso abbiamo paura di scrivere in prima persona e lasciamo siano altri a raccontare.

Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell’atto mi sento vivo. 

Erich Fromm, L’arte di amare, 1956


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Pollicino: Noi che guardiamo gli altri essere altruisti e ci emozioniamo
L’Orco : Il tempo del successo ad ogni costo e del peso del potere
L’arma segreta :  Riprendere i contatti con l’empatia e l’altruismo per una migliore autostima
Marzia Cikada

She - Her Psicologa, psicoterapeuta, sex counseling, terapia EMDR per il trauma. Incontra persone che vogliono stare meglio, a partire dall'adolescenza. Nel suo spazio ogni persona può sentirsi a casa. Ha creato il progetto Vitamina di Coppia, con la collega Sara De Maria. Riceve online e nei suoi studi di Torino e Torre Pellice.